Ha fatto centro la ciclo-avventura di Davide Zandonella: dall’Uzbekistan al Pakistan.

L’avevamo lasciato il 24 aprile all’aeroporto di Milano, Davide Zandonella, viaggiatore 28enne di Albino, in partenza per Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, per andare a riprendere la sua bicicletta, lasciata là, in un magazzino, nel maggio 2019, al termine di un lungo viaggio in giro per il mondo in bicicletta, durato un anno e mezzo, attraversando 30 paesi, dalla Francia all’Asia Centrale. L’idea era di percorrere, con quella bicicletta, chiamata “La Poderosa”, unitamente a trasvolate in parapendio, i Paesi dell’Asia Centrale fino al Nepal, per un’avventura lunga sei mesi. Ebbene, anche se c’è stato qualche intoppo burocratico che ha fatto saltare i “passaggi” in Cina e Nepal, il prode Davide ha fatto rientro a casa, ad Albino, il 24 ottobre. Subito, la redazione di Paese mio lo ha agganciato, per farsi raccontare questa esperienza.

 

I tuoi sostenitori ti hanno seguito sulla pagina Facebook “Go Zando Go”, leggendo i tuoi racconti day-by-day…

Mi ero ripromesso di essere molto social, con resoconti a stretto giro di giorni. Tanti i lettori, sono contento del mio diario social, spero di aver fatto comprendere le mie emozioni, le mie fatiche, le mie paure, insomma il mio viaggio.

 

A proposito, quali sono state le tappe principali del viaggio?

Primo passo, Bukhara, su pullman uzbeki, per riprendere “La Poderosa”. Poi, Samarcanda; Dushanbe, capitale del Tagikistan, e i monti Fann; il fiume Panj che fa da confine con l’Afghanistan; Murghab, città dell’est-Pamir; la bellissima e caotica “Khalai-Khumb-Khorog”, ovvero la Pamir Highway; Khorog, covo di viaggiatori; ancora il corso del Panj, attraverso la valle del Wakam, leggendaria regione afghana, schiacciata tra Tajikistan e Pakistan, nella quale si incontrano le catene montuose del Pamir, dell’Hindukush e del Karakorum. Poi, da Murghab e il Karakul Lake, traversata della valle del Barthang, freddissima. E ancora, salita all’Ak-Bajtal pass, il punto più alto della Pamir Highway. Un inizio duro, ma stupendo. Ed eccoci in Kyrgyzistan, ad Osh, la “capitale del sud” del paese, fra i paesaggi del Tian Shan. Siamo a luglio, discesa verso le piane desertiche del Kazakhstan, fino ad Almaty, l’antica capitale. Davanti a me Himalaya e Karakorum. Ma niente ingresso in Cina, per problemi burocratici, di visti e permessi. Quindi, in aereo scendo in India: Delhi, il Taj Mahal, la mistica Varanasi affacciata sul Gange, Bodhgaya, luogo dell’illuminazione di Siddartha, fin su a Shimla, alle pendici dell’Himalaya. Ok, riprendo la bicicletta verso i ghiacciai del Ladakh (Himalaya indiano) ed il Kashmir, con i loro passi da oltre 5.000 metri e da lì il Pakistan ed il Karakorum. Stupenda la valle di Spiti, antica contrada del Tibet occidentale, lungo l’itinerario seguito dal buddismo nel suo diffondersi, ormai 3.000 anni fa, dall’India verso il “paese delle nevi” (così, i tibetani chiamano la loro terra). Poi, la valle dello Zanskar, e alcuni giorni al Kee Gompa, ospite di una comunità di 100 monaci. Il passaggio in Pakistan è con mezzi pubblici, visitando prima il tempio d’oro dei Sikh, ad Amritsar, la bellissima Srinagar e ammirando a Wagah Border, unico confine via terra fra India e Pakistan, le guardie indiane e pakistane che si sfidano in coreografie e passi sincronizzati nella cerimonia di chiusura della frontiera, di fronte ad un vero e proprio stadio di folla. Infine, Islamabad, lungo la valle dell’Indo, e Peshawar. Un’infinità di storie.

 

Quale il primo commento sul viaggio?

Sei mesi di esplorazione by fair means (“con mezzi leali”) è tanta roba. Attraverso le cinque catene montuose più maestose dell’Asia: Pamir, Tien Shan, Himalaya, Karakorum e Hindukush. In questa esperienza saluto sei Paesi, tra i più affascinanti dell’Oriente, una ventina di voli selvaggi in parapendio tra le vallate più remote dell’Asia dimenticata; 10.000 km in bicicletta, di cui circa 6.500 su strade sterrate e sentieri; 115.000 metri di dislivello positivo guadagnati; più di 140 notti in tenda nel più assoluto silenzio e nell’arido nulla; 23 passi oltre i 3.500 metri di quota scalati; e un’infinità di città, villaggi, case sparse, paesaggi, incontri. Insomma, tante memorie. Perché sì, credo si possa dire che ogni viaggiatore sia in fondo un collezionista di ricordi; un cacciatore di istanti da vivere, da trattenere nella propria memoria, come preziose gemme del passato.

 

Che sensazione prova, ora che è a casa sua, ad Albino?

Questo viaggio mi ha donato molto, ma sono anche contento di riabbracciare la solita lenta esistenza valligiana, cui sono così intimamente affezionato. Dopo tanta avventura, ritrovare casa e famiglia è sempre una gioia ed un privilegio incalcolabile, perlomeno per me. Forse perché non sono mai stato un amante dell’altrove, ma ho sempre ritenuto di essermi dedicato ai grandi viaggi in risposta alla mia curiosità, mai per necessità o come scusa per fuggire da qualcosa. Ora, però, tempo al tempo: devo digerire con la giusta calma tutte le emozioni, lasciare sedimentare le esperienze vissute. Niente di meglio del proprio porto sicuro.

 

Ha in mente qualche incontro pubblico per raccontare il suo viaggio?

Dopo tanto navigare, sento che la mia vita mi sta chiamando altrove. Quando avrò riorganizzato un po’ del materiale raccolto, ci saranno certamente occasioni per incontri dal vivo, qualche serata di racconto su questo viaggio. Ma ho bisogno di tempo.

 

Che cosa ha significato per lei questo viaggio?

Questo viaggio è il mio personale inno d’amore al vagare e all’andare in montagna, intesi come uno stile di vita, un modo di affrontare l’esistenza, abbracciandone i valori intrinsechi e sottesi. Il mutare delle stagioni, il vento, la transumanza dei pastori, i raggi abbacinanti del sole sui ghiacciai, le alte pareti silenti, le fessure nel granito luccicante, le nuvole alte e la nebbia più fitta sono stati i miei compagni di viaggio. Riporto a casa tutto questo, un bel bagaglio di emozioni, immagini, pensieri che, mischiato al fiume di ricordi che chiamiamo tempo, mi ha reso un uomo felice, capace di trovare gioia in un sacco di cose semplici. E questo non è scontato. Certo, ci sono stati pericoli, ho affrontato sfide di tanto in tanto, ma d’altronde la vita stessa è pericolosa.

 

Quale consiglio vuole dare ai giovani come lei?

Lanciarsi nel fare; provare esperienze nuove; vivere avventure, magari folli; aprirsi agli altri; avere coraggio nell’uscire nel mondo, superando i muri della comodità e i vincoli dell’abitudine. Fuori, c’è un mondo di gente strepitosa, lontana da come la immaginiamo o ce la fanno vedere. Dobbiamo riguadagnare la poesia dell’ignoto, la predisposizione ai grandi slanci, che è nell’uomo, da sempre. Liberarsi da mode e sovrastrutture, beni che riteniamo necessari; essere sobri, radicali il più possibile, puri dentro, così da accettare in modo sorprendente quello che ti arriva incontro. Questa è la sfida che vuole la vita.

 

T.P.